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Associazione
Culturale e Casa Editrice - Via San Costanzo, 8
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AVERE AD ESSERE: PER UN'ETICA DELLA IN/DIPENDENZA
La croce del Cristo viene portata in processione, sacerdoti e laici avanzano
a passo lento per le strade. Ricordo l'odore che saliva dai ceri, la banda
che suonava una marcia funebre, la gente alle finestre. Era una festa,
ma triste, raccolta e mesta. Ricordo la sensazione di una partecipazione
comune. Ricordo anche quel senso di paura e di oppressione, quel senso
di morte che ti si metteva addosso. Una festa promessa che si consumava
in dolore. Ricordo altre ricorrenze, il giorno del santo. La statua che emerge tra la folla, ondeggia nell'aria, instabile e sicura come l'albero di una nave. La portano in spalla, sotto la piattaforma, uomini robusti. Pencolava, trasferendo in immagine i loro passi. Passi lenti, aperti al cammino dal sacerdote, seguivano i fedeli, si levava la voce corale della preghiera, che si trasformava in un canto monotono, in un modulo uniforme. C'erano tutti, volti familiari e noti, si stava in strada. Era la processione. Ai balconi si stendevano le coperte più belle, appartenute al corredo di sposa e gelosamente conservate negli armadi dall'odore di naftalina. Mi capita ancora di fermare la macchina, di scendere e andare a vedere e domandare, quando in viaggio mi trovo a passare per piccoli paesi. Le illuminazioni in archi di legno sottile, ricamati con tante piccole lampadine, e le bandiere d'Italia annunciano subito al passante che è la festa del paese, attesa per un anno nel ciclo della ricorrenza. Tante cose sono tenute insieme o passano le une nelle altre in questi ritmi e liturgie, che mettono in comune lo spirito popolare e religioso, e confondono immagini e rappresentazioni, ricordi e memorie, le storie di ieri e le presenti. E' come se la processione scandisse il tempo nelle sensazioni, i sentimenti e le passioni, la religione, la politica, la cultura del luogo, assumendo anche simboli a loro estranei, ammessi a confluire e confondersi in altri più propri di quella terra. Ecco le grandi città non hanno più terra. Sono quasi astratte, meccaniche, senza voci, sovrastate da rumori che coprono un silenzio soffocato di pensieri e parole. Le città non hanno più terra, sono più prossime all'astrazione del pianeta. Ma la terra è la propria terra, dove si nasce. Non sarà allora certo un caso se nelle città le nascite sono sempre più ridotte, insieme con la terra si perde la natalità. Si perde anche la solitudine intima, per ritrovarsi in un isolamento irreale: ognuno è solo in mezzo a tutti, si perde il costume, l'etica, il senso della terra, si perde l'abitare. Una parola piena che confina e trascorre negli estremi dell'avere, dell'abitudine, della casa, della morale: tutte espressioni che stanno iscritte nella voce latina habere . Talvolta si sente ripetere, che occorre essere e non avere, ed è giusto fin quando l'avere è ridotto al possesso. Ma essere senza abitare è come la malattia e il disagio del nostro tempo, è anche un problema sociale sempre più diffuso in Europa e in Italia dove la crisi degli alloggi, il non trovare casa e l'essere disoccupati è un problema assillante e destabilizzante. Forse bisognerebbe una buona volta tentare di coniugare insieme essere ed avere (habere), non come possesso, è chiaro, ma come avere ad essere, lasciare essere, esserci. La processione, come la ritualità, come può riguardare tutto questo? Sono rimasto là al balcone a guardare il suo avanzare. La croce del Cristo, la statua del santo, la liturgia, la parrocchia, la confessione, la religione... già la confessione! Non sono la stessa cosa la religione e la confessione, al punto che si può certo dire che ogni confessione è religione, ma non ogni religione è confessione. E qui arriviamo al punto più complicato, al cristianesimo, alla cristianità, ai suoi simboli e alla sua spiritualità. Ne comprendiamo l'uso e meno il bisogno. Come comprendiamo nel bisogno della religione quello di sentirsi legati, che è riposto nella voce orginaria della parola religione. Un bisogno di comunità, di sentirsi insieme e dipendersi. L'origine della religione è nella dipendenza -diceva un filosofo-,è nel bisogno di un legame, la religione in questo senso è ciò che ci accomuna, non è qualcosa che si possa mai ridurre all'esteriorità di una rappresentazione, appartiene ad ognuno prima ancora di essere questa o quella confessione religiosa. Sappiamo tutti, che la confessione cattolica si è innestata sulle culture religiose ad essa preesistenti. Sappiamo quante divinità "pagane" e quante feste popolari siano state trasfigurate in santi e riti del cristianesimo. Un fatto che è visibile ancora soprattutto nel Meridione dell'Italia, dove, forse per poco, più forte è il senso della terra e della natività, della memoria tramandata nei gesti e nei modi di esprimersi e di comunicare. Sappiamo anche che il teatro, luogo ed espressione comune della rappresentazione, ha avuto origine dai riti sacri e sacrificali. E' stato così per il teatro degli antichi greci e per il medioevo latino. All'origine del teatro è la sacra rappresentazione, la partecipazione corale, stravolta poi dal personalismo degli attori. Per troppo tempo gli studi sui fenomeni delle processioni e della liturgia di una comunità sono stati ridotti e circoscritti all'antropologia e alla sociologia. Fenomeni perduti non solo nelle grandi città, ma anche nei paesi. E se riappaiono e sono riproposti, questo avviene certo per un bisogno, quello di ritrovare, a fronte del consumismo e l'individualismo, un comune che si è perduto o che forse non c'è mai stato e che proprio perciò è più desiderato. Ma si può ripetere quello che è già stato? Si possono riproporre, in maniera direi quasi filologica, riti e simboli, o non occorre pensare, che rispondevano ai bisogni di un tempo e che altri bisogni, altre aspettatitive e necessità si impongono adesso? Non occorre certo immaginare nuovi riti, ma una riappropriazione di una memoria nella vita vissuta del presente. Non si rischia altrimenti di confondere il bisogno della comunità e della partecipazione con l'integralismo e l'adesione ad un modello che nasconde l'esatto contrario di quel bisogno: l'autoritarismo e il personalismo? Quando la storia di un paese conosce il punto del suo minimo morale, ogni soluzione è buona, soprattutto se affidata ad un solo uomo, capace di farsi totem e tabù, di modellare una rappresentazione di sé, una recita a soggetto per tutte le occasioni. Questo rischio è sotto i nostri occhi, nell'agire politico. I luoghi sono le persone che li abitano, ripeto spesso. Ma i nostri luoghi sono come disabitati da noi stessi. Non abitiamo più le case. Stiamo davanti alla televisione, che da tempo ha sostituito il focolare e quella finestra da cui da ragazzo guardavo la processione, dove ci si "affacciava" a vedere la gente passare. Ma non è per nostalgia che dico questo. Lo dico pensando ad una educazione dei sentimenti, e guardare è un sentimento. Noi viviamo in un momento della nostra vita sociale dove il cittadino è diventato un telespettatore e il politico un giocatore, un movimento politico è una squadra, e andare a votare è seguire i sondaggi e fare il tifo. Negli stadi si va per azzuffarsi, così come vediamo azzuffarsi i politici in televisione. Guardare è diventato un gesto passivo, ma il vedere, insisto, è prima di un senso - o forse proprio per questo - un sentimento. La tragedia presso gli antichi Greci nasceva dalle rappresentazioni sacre. Fu il momento più alto della coscienza critica di quel popolo. Al teatro si andava in processione, e il teatro era un luogo comune. La tragedia nacque così: ripetendo i miti, i simboli e i valori della tradizione in un confronto critico con i nuovi bisogni giuridici e sociali. Ne veniva una critica del presente al passato e una critica del passato al presente. Fu il momento più alto della cultura greca. Ed è il momento più alto a cui può pervenire una comunità nel proprio tempo, quando si mette in circuito la memoria e il presente, l'attuale e l'inattuale. In questo doppio movimento si dà la responsabilità, non quando si invoca il nuovo comunque e a tutti i costi o, peggio, quando poi il nuovo che avanza nasconde dietro un sorriso artefatto i volti del vecchio di ieri. Perciò voglio concludere così: la ritualità sacra, le processioni e le liturgie, non possono ripetersi per filologia, senza un confronto comunicativo con i bisogni che incalzano. Diversamente si resta chiusi nell'antropologia o nell'integralismo. Quelle strade attraversate da processioni e cortei, da laici e non, sono un luogo comune, di rappresentazione, sono il nostro teatro in cui educarsi al sentimento del vedere, non contemplativo, ma che resta nella memoria e nella responsabilità. Affido, allora, questa conclusione agli occhi del bambino per strada o al balcone. A quella sua sensazione che saliva dall'odore dei ceri e al senso di una comunità, che non si consumi nell'oppressione funerea, ma dia gioia e memoria, che affronti l'agire politico con la passione dell'etica. Non la vuota responsabilità che tutti possono dichiarare propria, ma come l'avere ad essere, esserci, in un sentimento del vedere e del mondo, capace di dire della comunità e della dipendenza. Così come si dice in/dipendenza, nel sapersi perciò preso e vissuto e vivere negli affetti, e più ancora nell'affezione dell'altro. L'altro: quello che io non sarò mai, l'altra. L'altro: un'altra comunità, un'altra religione, differente dalla mia, per un'altra politica in un avere ad essere nella reciproca dipendenza e passione del mondo. Ricordo il mio soggiorno a Capri, il dibattito su etica e agire politico nel confronto di un'esperienza laica e di una esperienza sacerdotale. Mi resta il ricordo di una serata bellissima di partecipazione vissuta. Capri è stupenda non per la bellezza delle cose: i luoghi sono le persone che li abitano. Quella declinazione immediata dell'isola e dell'isolamento scompare di colpo nel bisogno di prendere la parola e dar voce a una passione etica. Giuseppe Ferraro ( Ricercatore presso il Dipartimento di Filosofia - Facoltà di Lettere e Filosofia Università "Federico II" di Napoli) |